Approfondisci il passaggio da dormitori a locande

“Va’ e anche tu fa lo stesso” (Lc 10, 37). Ripensare i servizi caritativi in chiave paradigmatica, riflessioni alla luce del passaggio da dormitorio a Locanda di accoglienza.

Isacco Rinaldi

Per capire come siamo arrivati a maturare l’esigenza di cambiare le nostre modalità di accoglienza, perfino a sentire il bisogno di cambiare il lessico con cui parlavamo di queste modalità forse è bene iniziare da dove siamo partiti: sono passati più di vent’anni da quando la Caritas diocesana di Reggio Emilia e Guastalla avviò il dormitorio intitolato a Don Luigi Guglielmi. Vale la pena allora chiedersi cosa sia un dormitorio? Il vocabolario Treccani ne dà la seguente definizione: nome di asili notturni, tenuti nelle grandi città da enti assistenziali per il ricovero di non abbienti, con ampio stanzone fornito di brande (il dormitorio propriamente detto), servizi annessi per l’igiene e locali per l’amministrazione.

Appare immediatamente chiaro da questa definizione come il dormitorio sia un luogo funzionale, nato per rispondere ad un bisogno è strutturato intorno a questo scopo, delle persone che ne usufruiscono si dice solo che sono non abbienti, quindi li si definisce per sottrazione, per contrasto con quello che non hanno; degli enti che li gestiscono invece si dice che sono enti assistenziali.

Come Caritas questa definizione ci è sempre andata stretta, non siamo un ente assistenziale: il nostro compito è promuovere la testimonianza comunitaria della carità e per noi le persone in difficoltà sono fratelli in cui si manifesta la presenza del Signore, e pertanto abbiamo sempre cercato di arricchire di significato il dormitorio ma di fatto per molti versi quello che abbiamo portato avanti per molti anni era un servizio di accoglienza notturna.

In tutti questi anni sono cambiate tante cose sia da un punto di vista sociale che pastorale: da una parte c’è stata la crisi economica del 2008 che ci lasciato in eredità una povertà più diffusa e cronicizzata, dall’altra parte è diventata palese una crisi che in tanti avevano già intravisto: fine coincidenza società e società cristiana, calo delle vocazioni, crisi del modello catechetico tradizionale, scandali di varia natura… Proprio questa convergenza fra cambiamenti sociali e pastorali ci ha portato alla convinzione che fosse necessario cambiare le nostre modalità di azione, e che fosse necessario rimarcare questo cambiamento anche con un cambiamento lessicale, in questo caso specifico: da dormitorio a locanda.

Il passaggio sotteso è quello da una logica emergenziale di risposta al bisogno ad una logica relazionale e di accompagnamento, questa riflessione non è stata solo tecnica ma soprattutto pastorale, è importante che come Chiesa siamo attenti alle sollecitazioni che arrivano dalla realtà e dalle scienza sociali ma che ci approcciamo a queste con l’attenzione di “ecclesializarle”, di farle dialogare in modo armonico con quello che siamo, in questo righe cercherò di condividere questo percorso con voi.

Le crisi di cui abbiamo parlato poco fa ci restituiscono la nostra fragilità: un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto (LC 10, v30). Un uomo, chiunque di noi, può essere assalito dai briganti, può essere messo all’angolo dalle difficoltà della vita, materiali o spirituali, paradossalmente grazie al ritrovarci tutti più fragili, possiamo cogliere l’occasione di riscoprirci tutti prossimi, tutti sulla stessa strada e quindi tutti ugualmente responsabili gli uni degli altri.

Cade così l’illusione dell’autosufficienza, o meglio la tentazione dell’autosufficienza, non esistono più quelli che aiutano e quelli che sono aiutati, improvvisamente il Signore ci ha fatto il grande servizio di ricordarci che nessuno si salva da solo e che noi non salviamo nessuno è Lui che ci salva, e a noi è chiesto di stare di in relazione con gli altri e in relazione con Lui attraverso gli altri.

Papà Francesco ha cercato di aiutarci a intraprendere questo cambio di orizzonte attraverso l’istituzione delle giornata del povero: “Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. Infatti, la preghiera, il cammino del discepolato e la conversione trovano nella carità che si fa condivisione la verifica della loro autenticità evangelica. E da questo modo di vivere derivano gioia e serenità d’animo, perché si tocca con mano la carne di Cristo.”

È proprio su questo tema della relazione che abbiamo colto una fortissima convergenza fra il pensiero della chiesa e il metodo relazionale, ed è su questo che abbiamo avviato un percorso di discernimento comunitario e sperimentazione durato alcuni anni, e in parte ancora in corso, che ci ha portato a definire che cosa cambiare delle nostre modalità di accoglienza.

Innanzitutto ci si è chiesti il senso che si voleva dare alle strutture di accoglienza: … non vogliamo solamente trovare posti letto. Se questo fosse stato l’obiettivo sarebbe stato più semplice allestire un grande dormitorio; vogliamo soprattutto offrire spazi di relazione dove ciascuno possa sentirsi accolto da qualcun altro ed essere riconosciuto nella sua dignità di persona.

Non solo quindi rispondere ad un bisogno materiale ma offrire alla Diocesi un’occasione di vero incontro con fratelli in difficoltà che potesse permettere alle comunità di vivere un’esperienza paradigmatica che li portasse interrogarsi sul loro modo di vivere la fede e il rapporto con i fratelli, come singoli ma anche come comunità, un’esperienza che potesse far lievitare altre esperienze analoghe, che potesse generare alla fede.

Capite che quindi diventa dirimente non più il cosa si fa ma il come lo si fa ed proprio in questo come che si gioca l’esperienza paradigmatica, qui sta il passaggio da dormitorio a locanda.

“Passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”.

La locanda è innanzitutto un luogo abitato, non è un posto dove si dorme e basta è un luogo vivo dove si prende dimora, qui le persone accolte e le persone accoglienti si mescolano fanno comunità e camminano insieme, in una parola si “compromettono”. La presenza di persone che hanno scelto di vivere e condividere un pezzo della loro vita con chi si trova a vivere momenti di difficoltà, restituisce certamente il senso del luogo. È infatti nella condivisione della quotidianità, nel preparare insieme da mangiare, nel sedersi a prendere un caffè, nel raccontarsi delle proprie preoccupazioni e delle proprie gioie che risiede la vera forza di questa esperienza.

La locanda è quindi un luogo dove il tempo è superiore allo spazio, un luogo dove si sa che i percorsi saranno necessariamente lunghi perché serve tempo per creare dei legami, per conoscersi, per fidarsi, per imparare a gioire e soffrire insieme; come nel brano del Vangelo, la Locanda ha un ruolo di cura che sta tra la consegna e il recupero dell’autonomia, luogo nel quale si incrociano le vite e le storie di chi è “incappato nei briganti” della vita e di chi si mette a disposizione per “curare le ferite”. Un luogo, quindi, che diventa simbolo di accoglienza e testimonianza di carità e solidarietà con gli altri.

La locanda è un luogo aperto alla città, un luogo che richiama persone da “fuori”. Ad esempio nella Locanda S. Francesco ogni lunedì sera, si celebrano i vespri che diventano un appuntamento fisso di ritrovo per le persone della casa ma anche per chiunque venga da fuori e abbia voglia di partecipare pregando insieme e condividendo qualcosa per cena.

I vespri, come i Laboratori organizzati, la presenza settimanale di ragazzi scout o il coinvolgimento di gruppi e giovani, racchiudono un significato animativo che è certamente valore fondamentale della struttura in un’ottica di condivisione, di cura comune, di vivere la Locanda non solo come un “posto letto” ma come luogo di pienezza e di incontro, come una “casa” un luogo sicuro e intimo, anche se con la consapevolezza che sarà temporaneo; come dice Anna “qui si sta bene, è un posto accogliente”.

La strada della conversione non è mai finita e anche per noi il cammino per passare da dormitorio a locanda non può dirsi concluso, anzi tante volte corriamo il rischio di avere rinnovato il linguaggio e i muri ma non il cuore, quello che ci sostiene è vedere che le relazioni instaurate curano, ci curano e portano frutto: oggi siamo già arrivati a due locande e vorremmo che ogni casa lo diventasse per raccogliere l’invito di Gesù: Va’ e anche tu fa lo stesso.